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prefazione | vii |
i miei concittadini, considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all’Unità Italiana (giornale) sulle mie antifone contro i preti.
Sui meriti della gioventù Romana, per cui ho una predilezione speciale, alcuni mi troveranno esagerato. Ebbene, se sono largo di elogi agli odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno avvenire.
Essi, sin ora sotto la diretta educazione del prete, ed in presenza delle sue carceri, de’ suoi birri, e de’ suoi istrumenti di tortura, dovevano essere ciò che erano veramente.
Oggi però, abbenchè poco meglio governati, essi non sono più sudditi o schiavi del clero — e devono sottrarsi intieramente da quel vergognoso servaggio, abiurarlo, maledirlo, distruggerlo sino alle ultime vestigia — ricordandosi che dal clero, essi, dall’apice delle Nazioni furono precipitati all’infimo grado della scala umana.
E che non vengano qui gli uomini a dottrine che puzzano di sagristia e di ceppi a dottoreggiare, che non conviene agli operai (come si preconizza in Roma oggi) di trattare di politica.
Se io, povero mozzo, non m’inganno, politica significa affare dei molti — ed intendo i molti dover essere coloro che menan le braccia nella società quando ben costituita — ed i molti naturalmente interessati a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento.
La gioventù Romana — operai od altro — deve