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questa campagna la Borbona, destinata inutilmente alla difesa di Melazzo, approdava nel porto di Messina, e sbarcava nella cittadella un conosciuto nostro, il più astuto corifeo del negromantismo, il gesuita Corvo; e siccome dopo la battaglia di Melazzo, le camicie rosse cominciavano a segnalarsi sulle alture di Messina, il discepolo di Lojola credè meglio impartire le sue istruzioni al Comandante della cittadella, e tornarsene a bordo sulle ali dei venti e del vapore. Egli diceva: «meglio uccello di bosco, che uccello di gabbia».
Il Comandante della Borbona era, come tutti i servitori di Re, uomo col cuore nella pancia, e bastava perciò che non l’avessero disturbato nei suoi quattro pasti diurni, e dal suo favorito caffè, due volte al giorno, perchè egli potesse passare per un buontempone.
Il comandante d’una fregata come la Borbona a bordo è un sovrano, e non abbisogna per ciò essere un Nelson.
La rigorosa disciplina, ancor più facilmente attuabile sui bastimenti da guerra che nell’esercito, fa sì che ognuno deve ubbidire al capo, inesorabilmente. Di qui non si diserta, non si fugge, non v’è nascondiglio nei combattimenti e per poco coraggio che abbia un marino — ciò che succede raramente — la sua vita stava un dì come la ruggine annessa ad un proietto lanciato dal nemico, oggi essa fa parte dell’acciaio del terribile sperone.