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338 note aggiunte nella seconda edizione


o ne’ registri di quel tribunale esisteva memoria di altre piú antiche fattesi, in niuna mai si era imbattuto, che non si fosse alla fine scoperta essere o impostura o volontaria illusione. Solo, tra tanta vanitá di cose, erasi imbattuto in due secreti chimici di altissima importanza. L’uno era quello d’una pasta, la quale cingendola ad un ferro anche della grandezza di quei che sogliono usarsi ne’ cancelli de’ carcerati, e premendola indi e ritenendola sotto il calor della mano, nello spazio di cinque o sei ore ammolliva il ferro a segno che si poteva torcere e piegare meglio che se si fosse fatto infocare; e ciò, senza che cosí potenti droghe nuocessero alla salute dell’uomo, che le teneva chiuse dentro la mano. Riflettendo egli d’essere tutta la sicurezza della vita e de’ beni d’ogni uomo consegnata al ferro e su questo metallo unicamente riposarsi, risolvè seppellir nell’oblio cosí terribile segreto, né volle mai comunicarne a veruno la composizione. L’altro segreto consisteva in questa pasta, che io descrivo. Di esso fu men rigido custode, e comunicollo al Taccone, il quale mi mostrò una moneta d’un grosso scudo di Spagna, dal quale, osservandolo anche con diligenza, nulla pareva che mancasse e nessun tratto della impressione compariva smussato; e pure se gli vedeva accanto la sottilissima foglia d’argento, che coll’applicazione della pasta se n’era staccata, la quale, solo scandagliandola col peso, si sarebbe scoperto mancare alla moneta. Fu don Giacomo Taccone uomo di probitá non inferiore alla dottrina e al buon senno. Morì nel 1761, paroco della real chiesa del Castelnuovo. Da lui. che fu mio amicissimo, mi fu fatto tutto il precedente racconto, e volle anch’egli, con egual virtú, nascondere ad ognuno, finché visse, e lasciar perdere quest’altro pericoloso segreto; e mi lusingo che sia infatti restato ignotissimo, giacché in tutto il corso della mia vita non ne ho inteso mai piú da altri favellare.

XXIV

(p. 230, rr. 18-9)

Avvertasi che, se fu da me asserito in questa pagina che non piú d’un milione e mezzo di ducati in rame circolassero nel Regno nell’anno 1750, io lo feci perché, come nella susseguente pagina 231 ben chiaramente spiegai, mi premeva, per non fallarne