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note aggiunte nella seconda edizione 325


alterare d’allora in qua, non essendo fissata per legge di zecca; e la cogna (corruzione della latina voce «congium») è passata ad essere soltanto misura degli oli in alcune province.

Da un documento de’ prezzi dei grano d’una comunale raccolta passo ad una della massima carestia. Giuliano Passaro nella sua cronica manuscritta (citata di sopra nella nota XI), all’anno 1496, lasciò notato ciò che siegue:

In questo tempo eie una grandissima carestia in Napoli, dove che lo tuinolo de lo grano vale nove carlini, e dieci lo tumolo de la farina, e questo eie per lo grandissimo male tiempo de pioggia che fôro, che durao tre mesi, e in Napole non potette venire per mare, nè etiam per terra, grassa. Pensate che non fo lo simile mai. Ma, come vòlse Nostro Signore Dio, in termine di tre misi lo male tiempo mancai; dove per questo incominzai ad venire grassa in Napole.

Nove carlini di quel tempo corrispondono nel peso a circa sedici correnti, i quali, quadruplicati, danno il prezzo di circa ducati sei e mezzo il tumolo; prezzo cosí strabbocchevole, che appena la memorabile carestia del 1764 ne fornì nel Regno qualche esempio. Ma questa narrata dal Passaro fu originata da accidentali cagioni, che la resero particolare alla sola cittá e di assai piú breve durata.

Devesi far susseguire a questa notizia l’altra lasciataci dallo stesso Passaro de’ prezzi vili, che nella somma abbondanza si ebbero nel 1510 (da me rapportata nella nota XI); ma si conviene avvertire che giá nel suddetto anno l'immensa quantitá di metalli preziosi trasportata dalla scoperta America e circolante in Europa avea mutato di molto il prezzo delle merci, e perciò il darsi un tumolo di farina in Napoli per meno di due carlini di quegli battuti dagli Aragonesi, e il vendersi trentasei tumoli di grano nelle marine di Puglia per cinquanta carlini, era un avvilimento tale da produrre la rovina de’ coltivatori, come infatti seguì.

E che la calamitá della somma penuria di denaro, e quindi dell'avvilimento de’ prezzi delle merci, continuasse ad affliggere il Regno, ce ne dá documento il vedersí che un secolo dopo, cioè nell’anno 1547, abbiamo una lettera di monsignor Onorato Fascitelli (che dal dotto e diligente signor Vincenzo Meola è stata inserita tralle altre memorie di questo letterato), scritta da Torre Maggiore la vigilia di Natale a messer Giambattista Possevini, in cui gli dice:

Io mi ritrovo in Puglia a far mercatanzia de’ grani de’ miei beneficiuoli, e, acciocché Vostra Signoria abbia che ridere, ne ho vendute molte centinaia ad otto grana e mezzo il tumulo.