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capo terzo | 256 |
Sotto le medesime pene comandiamo ed ordiniamo che niuna persona di qualsivoglia stato, grado e condizione, diretta né indirettamente, ardisca ricevere né far pagar danaro di sorte alcuna per qualunque causa o pretesto, ancorché privilegiato, affin di corrispondere nella cittá di Roma o altre cittá, terre e luoghi dello Stato ecclesiastico, tanto per ordini, quanto per lettere di cambio, benché per via di giro di Genova, Livorno, Piacenza, Venezia o altre piazze; e per la giustificazione delle contravvenzioni, inobbedienze e trasgressioni suddette ordiniamo e comandiamo doverse attendere le prove anche privilegiate, acciò maggiormente possa restare ovviata qualunque frode.
È strano che un editto tale producesse non molto strepito, potendo egli benissimo eguagliarsi, attendendo ogni sua circostanza, a quello che i romani usarono «aqua et igni interdicere», ed essendo, quanto agli effetti temporali, senza comparazione, maggiore di qualunque interdetto o scommunica, che dallo Stato ecclesiastico al napoletano potesse esser fulminata. Vero è che subito un tale ordine, conosciutosi ch’e’ non potea senza cambiamento di communione sostenersi, fu rivocato quanto a quella parte che riguardava le lettere di cambio, e confirmato quanto all’altra. Ma, quando ben si consideri, si troverá essere stato più savio il primo editto che il secondo. Perocché quello, sebbene contenesse grandi assurdi, pare però che mostrasse essersi conosciuta questa veritá, che il divieto dell’estrazione dalle lettere di cambio era eluso e schermito. Il secondo editto scoprì che per impeto di collera erasi fatto ciò, che parea fatto per maturo consiglio, e rivocò tanta parte, che bastava a render vana l’osservanza dell’altra. Il vero era che conveniva rivocarle tutte due, ed alla non voluta estrazion del denaro dare assai diverso riparo.
Ma, quando i sudditi (il che non sará mai) ubbidissero al divieto del trasporto religiosamente, allora al principe converrebbe trapassarlo; perché, col vietar l’estrazione della moneta, non si ottiene giá che la quantitá delle merci proprie, la vendita delle quali produce le lettere di cambio, s’aumenti. Dunque, ponendo che il Regno nostro estraesse quattro milioni di