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capo primo | 163 |
ὀγδώκοντα καὶ ἑξακοσίων καὶ τετρακισχιλίων: «Aurum vero, si terdecies multiplicatum computetur [ad argentum], ramentum reperitur ad rationem Enboicam esse quatuor millia talentorum sexcentaque et octoginta». È dunque chiaro che la proporzione era di uno a tredici.
Pare che questa poi fosse alquanto mutata in Grecia a’ tempi di Socrate, per quello che da Platone si ha nel dialogo Dell’aviditá del guadagno. Ivi, ragionando Socrate con Ipparco, gli domanda se un negoziante, che dá una mezza libra d’oro e ne guadagna una intera d’argento, acquisti o perda. Gli risponde Ipparco1: Ζημίαν δῆπου, ὦ Σώκρατες, ἀντὶ δωδεκαστασίου γὰρ διστασίον αὐτῷ καθίσταται τὸ χρυσίον: «Detrimentum equidem, o Socrates; nam pro duodecuplo duplum taniummodo recepit». Ma forse ciò proveniva dalla lega messa nelle monete ateniesi.
I romani, nel primo coniar l’oro, fissarono la proporzione di uno a quindici, dicendoci Plinio2: «Aureus nummus post annum LXII percussus est, quam argenteus, ita ut scrupulum valeret sestertiis vicenis». Or venti sesterzi sono eguali a cinque denarii, ed è ognuno di questi eguale alla dramma attica, la quale si compone di tre scropoli. Ma sí fatta proporzione ha riguardo piú alle monete con quella lega con cui si usò coniarle, che non al valore intrinseco del puro metallo. Inoltre in quella etá, in cui l’armi sole aveano pregio e le rapine distribuivano le ricchezze, chi sa con quanta accuratezza fosse stato dato prezzo alla moneta d’oro nuova e non mai prima battuta? Da questa proporzione infatti si variò, e ne’ tempi degl’imperatori fu di uno a dodici e mezzo costantemente, avendo l’aureo pesato due denarii e valutine venticinque3. Ma forse che ciò derivò in parte dall’essere diminuito l’argento dal molto che ne assorbiva il commercio delle Indie e dell’Asia. Nel basso