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capo quinto | 137 |
duecentomila ducati d’argento e d’oro ogni anno per andar supplendo sempre all’insensibile dissipamento, allora bisogneria zeccarne piú di quattro volte tanto. La zecca per sua natura è un aggravio del pubblico, come sono le altre spese pubbliche, e sempre dal pubblico si trae; perché fra il principe giusto e il suo popolo non s’ha mai da porre diversitá alcuna, nemmeno di parole. Or il Davanzati propone di quatruplicare un aggravio al pubblico, proponendo, per eccesso di zelo, una operazione che gli pareva eroica, e di cui egli non vedea le conseguenze perniciose. Né questa mia considerazione manca di esempli di nazioni, che per esperienza l’hanno conosciuta. L’Inghilterra nel 1698 non valutava la moneta piú della pasta onde si iacea, e con una imposizione sul vino manteneva la zecca. È incredibile quanta moneta si coniasse continuamente e quanta se ne liquefacesse tosto, mentre fin gli appaltatori delle zecche straniere giungevano a far commercio delle monete d’Inghilterra, come delle verghe, che dalla Spagna si danno, avrebbero fatto, disseccando cosí l’Inghilterra d’ogni danaro. Quanto guadagno apportasse questo agli officiali della zecca, quanto costasse al pubblico, lo conobbe Giovanni Locke, e poi il parlamento istesso; e conobbe ch’era falso rimedio l’alzamento a questo male, che dal difetto della zecca proveniva. Adunque questo consiglio del Davanzati a’ soli officiali della zecca è buono e profittevole: a tutti, non che inutile, è nocivo.
Ma inoltre, se il conio è una comoditá aggiunta alla moneta, non è cosa ingiusta volerne rifondere il danno ai bevitori ed ai cultori delle viti, mentre il comodo è degli uomini denarosi? Il dazio è un incommodo produttore d’un comodo maggiore, e perciò sempre è desiderabile e giusto che proporzionatamente soffrano il peso coloro che ne hanno il vantaggio; e questo appunto ottienesi quando nella moneta è compreso il prezzo dell’opra.
Non è meno palesemente biasimevole l’altro consiglio del Davanzati sull’istrumento da coniare. Su di che io desidero che i miei lettori leggano il capo decimottavo del Saggio sul commercio, ove si racconta quel ch’Errico Poulain, presidente