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capo terzo 117


estrinseco diverso dall’intrinseco alla moneta di rame, e che questo suo guadagno torna in danno dello Stato. A’ quali io, che non credo essere meno religioso ammiratore della fede pubblica e che non mi sento nell’animo alcuno stimolo d’adulazione, esporrò brevemente la causa di questo consiglio mio.

Due mali ha da temere ogni classe di moneta. Uno è ch’ella non sia, dopo zeccata, liquefatta di nuovo da’ privati per servirsene in utensili o mandarla fuori, e cosí manchi. L’altro è che, oltre a quella battuta dal principe, non ne sia coniata altra da’ sudditi o dagli stranieri, e cosí ve ne sia troppa. Quanto danno arrechi o l’uno avvenimento o l’altro, è manifesto. Avviene il primo, quando il principe zecca moneta troppo buona, cioè: I. s’ella avesse minor valore estrinseco che intrinseco; II. s’ella, in confronto delle monete degli Stati convicini o delle antiche del paese, avesse piú valore intrinseco, o, come si suol dire, fosse piú forte. Ognuno vede che, se un principe coniasse oggi ducati che avessero undici carlini d’argento puro, appena uscirebbe questa moneta, che subito saria nascosta ed appiattata da tutti, i quali, seguendo a pagare in carlini, liquefarebbero questi ducati o gli darebbero agli orefici ed ai mercatanti che hanno gli affitti delle zecche straniere: essendo regola invariabile che la moneta debole caccia via la forte dello stesso metallo, sempre che tra le due v’è equilibrio di forze. Perciocché, se, per esempio, il re ritirasse a sé tutta la moneta d’argento del Regno, e poi zeccasse la nuova, e in questa desse al ducato undici carlini d’argento, questa nuova moneta non anderebbe via; mentre allora non sarebbe altro che aver mutato il significato alla voce «ducato», il quale suonerebbe quel che oggi suonano «undici carlini»; e solo ne dovria seguire un apparente sbassamento de’ prezzi da quello cogli antichi ducati. Nè può la moneta d’argento uscire, non essendovi forza per cacciarla; giacché della vecchia non ve n’è, o cosí poca, che non basta a far pagamenti grandi con essa. Qui non parlo della forza d’un metallo sull’altro, che per altro procede nel modo istesso, quando la proporzione stabilita tra due metalli non è la naturale.