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capo secondo 105


sono le terre, le case, il denaro; perché gli animali sotto il genere de’ frutti della terra vanno numerati, non producendo i pascoli altro frutto che gli animali. Tutte queste ricchezze le fa sorgere e le consuma l’uomo, il quale è quello che le rende ricchezze: sicché non parrá strano, se da me sará l’uomo istesso come una delle ricchezze riguardato: anzicché egli è l’unica e vera ricchezza. Or di queste cose, che quattro in tutto sono, le due prime sono immobili, le altre due mobili. Però è piú facile al danaro l’andar fuori che all’uomo; perché il danaro, uscendo, fa entrare nel luogo, ch’ei lascia, altre ricchezze in tante mercanzie necessarie allo Stato, che s’impoverisce: ma gli uomini, partendo, perdono sempre parte del loro, perché lasciano e le terre e le case e i parenti e gli onori e la patria tutta, e solo il danaro possono recar seco. Né, quando molti insieme bramano abbandonare un paese, si possono le case e le terre lasciate, vendendole, convertire in equivalente danaro. È adunque meno mobile l’uomo del danaro. Le terre e gli edifici sono del tutto immobili quanto al trapassare; ma questi si edificano e cadono, quelle si coltivano e si steriliscono, e questo è il solo movimento che hanno. Perde ogni sua ricchezza uno Stato, quando il danaro (sotto il qual nome comprendo tutti i mobili preziosi) va via; gli uomini o se ne partono, o si lasciano dalla morte estinguere, non generando piú prole; le fabriche minano; le terre s’inselvatichiscono. L’ordine, che queste cose tengono nell’avvenire, è per appunto il sopraddetto; e tale la natura richiede che sia, secondo la diversa mobilitá loro. Di tutta questa decadenza è cagione la carestia. La carestia nasce talora dall’intemperie delle stagioni, e questa è la minore: perciocché, tolti alcuni esempi rarissimi, le male annate non durano mai piú di tre anni consecutivi; e, se mostrano durar piú, è perché le passate calamitá, impoverendo i coloni, non fanno seminar molto, e, quando non si semina, è certo che non si raccoglie. Viene la carestia anche dalla pestilenza degli uomini: ma questo castigo, come per esperienza si è conosciuto, non è meno da attribuirsi all’ira divina che all’incuria umana; e i buoni regolamenti giungono a