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capitolo xvii 87

     Ma, se questo non è e fie trovata,
65null’altra cosa, credo, la ripara
che non sia presa e che non sia sforzata.—
     Ahi, quanto esta risposta mi fu amara,
credendo fermamente fosse presa!
E questa opinion mi parea chiara;
     70ond’io risalsi insú tutta la scesa,
che avíe fatta, e giunsi su nel piano,
ove aspettato avíe con spene accesa.
     Io dicea meco:— O ninfa, alla cui mano
or se’ venuta? O vaga giovinetta,
75qual fauno t’ha scontrata o qual silvano?
     Questa è, Cupido, tua crudel saetta,
e grave pena è la tua fiamma dura,
se tardi o togli quel che spene aspetta.
     E l’altra è gelosia e la paura,
80che, perché la bellezza troppo s’ama,
però in nulla parte è mai secura.—
     Cosí andai chiamando quella dama,
come colui che una persona sola
vuol che lo ’ntenda e timoroso chiama,
     85che dice ratto e parla nella gola;
e tal i’ la chiamai ben mille volte,
qual Eco rende ’l suon della parola.
     Tant’eran giá del ciel le rote vòlte,
che Aurora giá mostrava sua quadriga,
90e giá Titon gli avea le trecce sciolte,
     quando pel pianto e per la gran fatiga
convenne che giú in terra io mi colcasse,
e piú per lei cercar non mi diei briga.
     In questo parve a me che in me entrasse
95il sonno, che ristora e che riposa
a’ mortali le membra stanche e lasse.
     Mentr’io dorméa, apparve a me, amorosa
e piena di splendor, la bella Ilbina,
in apparenza piú che umana cosa.