100E s’egli avesse a te ferir voluto,
come potea, nella tua persona,
nullo al suo colpo aver potevi aiuto.—
A questa voce del signor che tona,
cessò il foco Cupido e reverente 105disse al padrigno:— O padre, a me perdona.—
Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente
che ’l buon Amore, e nulla cosa ancora
si placa e torna piú leggeramente.
Posta la pace, si partí allora 110colle sue ninfe Iove e suoi satelli,
de’ quali il regno suo in ciel s’onora.
Ma pria la vita a Taura, ed i capelli
rendé a Vulcano, che parea un menno,
ed a Cupido i dardi orati e snelli. 115Poiché i duo guerreggianti pace fenno,
Vulcan disse all’Amor:— Perché sí rio
ver’ me se’ stato e con sí poco senno?
Se non che, quando a te saetta’ io,
trassi come a figliuol, non a figliastro: 120tu non scampavi mai dal colpo mio.
E provato averesti ch’io so’ il mastro
di saettar e che non si può opporre
a me mai scudo, unguento ovver impiastro.
Io son che getto a terra le gran torre 125e li gran monti, e che soccorsi a Iove,
quando i giganti vòlsonli ’l ciel tôrre.
Della saetta mia, quando si move,
i grandi effetti e le varie ferite,
nulla è filosofia che le ritrove.— 130Rise Cupido alle parole udite
e fe’ come fa alcun, che par ch’assenta
a quel che non è ver, per non far lite.
E, come aquila fa, quando s’avventa
alla sua preda rapace e feroce, 135ch’ali non batte, perché non si senta;