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capitolo xiv 73

     100E s’egli avesse a te ferir voluto,
come potea, nella tua persona,
nullo al suo colpo aver potevi aiuto.—
     A questa voce del signor che tona,
cessò il foco Cupido e reverente
105disse al padrigno:— O padre, a me perdona.—
     Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente
che ’l buon Amore, e nulla cosa ancora
si placa e torna piú leggeramente.
     Posta la pace, si partí allora
110colle sue ninfe Iove e suoi satelli,
de’ quali il regno suo in ciel s’onora.
     Ma pria la vita a Taura, ed i capelli
rendé a Vulcano, che parea un menno,
ed a Cupido i dardi orati e snelli.
     115Poiché i duo guerreggianti pace fenno,
Vulcan disse all’Amor:— Perché sí rio
ver’ me se’ stato e con sí poco senno?
     Se non che, quando a te saetta’ io,
trassi come a figliuol, non a figliastro:
120tu non scampavi mai dal colpo mio.
     E provato averesti ch’io so’ il mastro
di saettar e che non si può opporre
a me mai scudo, unguento ovver impiastro.
     Io son che getto a terra le gran torre
125e li gran monti, e che soccorsi a Iove,
quando i giganti vòlsonli ’l ciel tôrre.
     Della saetta mia, quando si move,
i grandi effetti e le varie ferite,
nulla è filosofia che le ritrove.—
     130Rise Cupido alle parole udite
e fe’ come fa alcun, che par ch’assenta
a quel che non è ver, per non far lite.
     E, come aquila fa, quando s’avventa
alla sua preda rapace e feroce,
135ch’ali non batte, perché non si senta;