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capitolo xiii 69

     ché mai la fiamma può veder la vista
o la luce del foco per se sola,
s’ella non è con altro corpo mista.—
     Tacette poscia dopo esta parola;
140ond’io a lei risposi:— Ammiro alquanto
come s’accende il vapor che ’nsú vola.
     Ed anco ammiro come può esser tanto,
che se ne faccia vento e pioggia ancora
e l’altre cose dette nel tuo canto.—
     145Sub brevitá questo rispose allora:
— Pensa del cibo dentro al corpo umano,
quando è indigesto e quando egli evapóra:
     il qual, quando è cacciato fuor dell’ano,
s’infiammeria come trita vernice,
150se si scontrasse in acceso vulcano.
     Cosí il vapor, che sú ’l mio canto dice,
s’infiamma giunto nell’aere acceso
e d’ogni impressione è la radice.—
     Cupido, quando a questo io stava atteso,
155venía per l’aere quasi uccel veloce
colle saette in mano e l’arco teso.
     — O Taura— chiamò ad alta voce,—
tu proverai che piú ’l mio foco infiamma
che quel del tuo Vulcano, e che piú coce.
     160Ei l’ha provato, e sallo la mia mamma.—
Cosí dicendo, un colpo tal gli porse
col dardo acceso di sacrata fiamma,
     che trapassolla e insino a me trascorse;
e tanto m’infiammò quella saetta,
165ch’io grida’ aiuto, e l’Amor non soccorse.
     Taura bella, di dolor costretta,
gridò al ciel:— Vulcano, ora m’aita,
e del crudele Amor fammi vendetta.—
     E, detto questo, cadé tramortita.