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260 libro terzo

     100S’è naturale, non è mai vizioso;
e vizioso si fa, se sfrena tanto,
che a Dio ed a ragion vada a ritroso.
     Questo appetito può sfrenar nel quanto:
in troppo prender pasto, in troppo stare
105a mensa, in troppi cibi, in buffe e canto.
     Nel quale ancora questo può peccare,
quando non fame l’appetito sveglia
ovver bisogno, ma sol dilettare.
     Ahi, come è dur sí ben guidar la breglia
110tra ’l quanto e ’l qual nel pasto, ch’uom non cada,
se molta vertú attenta non ci veglia!
     Ché questo passo ognun convien che guada
del prender pasto; ma servar misura
è forte, se vertú ben non vi bada.
     115Quand’altri sfrena sí, che troppo cura,
perché con dilicanza s’apparecchi,
costui pecca nel qual ed epicura.
     Non in un modo i cibi, ma in parecchi,
non per bisogno ’i cuoce e s’affatica:
120però Natura fa che raro invecchi.
     Ahi, gola miseranda! ché la mica
col favor della fame ha piú diletto
che le molte vivande, e me’ notríca.
     Mira colui che quivi sta a rimpetto.—
125Ed io sguardai, e ben due passi e piue
aveva il collo lungo sopra il petto.
     — Colui desiderò ’l collo di grue
— disse a me Palla,— a dar piú dilettanza
alla sua gola, il cibo andando ingiue.
     130Or l’ha sí lungo, ch’ogni struzzo avanza;
e la sua gola sempre di sete arde,
né mai di poter bere egli ha speranza.
     Nel tempo ancor si pecca, se ben guarde:
in questo peccan le persone stolte,
135ch’al pasto sempre lor par esser tarde.