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258 libro terzo

     O tu, che qui contempli la signora
— disse a me un,— che regge questo loco,
30sobvieni al gran dolor, il qual m’accora.
     Alla mia lingua, ch’arde come foco,
un poco d’acqua con la man mi dona,
che tanto incendio in lei rifreddi un poco.—
     Ed io fra me:— Quest’è quella persona,
35che non sobvenne a Lazzaro mendíco,
sí come Luca nel Vagniel ragiona.—
     Ed io risposi a lui:— Tu sai, amico,
che Abraam, a cui chiedesti l’acque,
rispose a te, sí come anch’io ti dico:
     40— Lazzaro giá alla tua porta giacque
infermo e nudo, e chiedeva mercede;
e di lui mai in te piatá non nacque.
     Dio vuol che chi abbundò e non ne diede
al povero di Dio, quando ne chiese,
45egli non n’abbia qui, quando ne chiede.—
     Ahi, quanto si scornò, quando m’intese!
E dicea seco com’uom che borbotta:
— Io mi credea che fussi piú cortese.—
     Ed io lo addomandai e dissi allotta:
50— Perché la lingua qui ha maggior pena
che gli altri membri, e piú è incesa e cotta?—
     Rispose:— Nella mensa lauta e piena
Cerere e Bacco fan le teste calde;
la lingua allor nel van parlar si sfrena
     55con motti lerci e con parol ribalde;
e, mentre il buon Falerno i cor fa lieti,
balestra le iattanze ardite e balde.
     Allor s’apre il serrame alli secreti:
sempre mal tace la mensa satolla,
60se i mangiator virtú non fa star cheti.
     Quivi si sparla che fama si tolla,
quivi la lingua dá le gran percosse
e strazia l’altrui vita, rode e ingolla.