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capitolo xi 249

     ché, allora allora nati, fûn ribelli
65tra se medesmi ed uccisonsi inseme,
con dure lance e con crudi coltelli.
     Ma tu se’ peggio che ’l serpentin seme,
ch’elli, in cinque scemati, fên la pace,
e tu la cacci quanto piú ti sceme.
     70Sí come alcun, che, ascoltando, tace
e che attende e mostrasi contento,
udendo il ver ch’agazza e che gli piace,
     cosí stett’io; e poscia piú di cento
corsono addosso ad un con gran corruccio
75e ferito il lasciôn in gran tormento.
     Ed egli, vòlto a me:— Io son Uguccio,
che ressi giá lo popul di Cortona,
tra i quali fui come tra pesci il luccio.
     Cosí ferita è qui la mia persona,
80ché la iustizia, secondo l’offese,
agli offendenti angoscia e pena dona.—
     Ahi, quanta doglia allor il cor mi prese,
quando in tormenti vidi quel signore,
che vivo fu magnanimo e cortese!
     85Per mitigare alquanto a lui ’l dolore,
diss’io:— Cortona è retta da Francesco,
pregio di casa tua e gran valore.
     Da lui venuto son quaggiú di fresco;
convien che a lui di te novelle io porti,
90se mai di questo inferno quaggiú esco.
     Minerva, che m’ha qui li passi scorti,
di senno ha dato a lui sí gran tesoro,
c’ha i mentali occhi a tutti i casi accorti.
     Il popul cortonese ha buon ristoro
95de’ loro affanni e lieto vive adesso,
subietto all’onde celestine e d’oro.—
     Piú dir volea, se non che un appresso,
che ben di mille colpi era feruto,
e senza gambe e mezzo ’l capo fesso,