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capitolo ix 141

     100Di quelli morti tra la gran rovina
un si levò, che solo il cuoio e l’osse
avea e verminose le intestina.
     E disse:— Poiché noi siam nelle fosse,
son nostri alunni e compagni li vermi.
105Oh fine oscuro delle umane posse!
     E, perché questo io meglio vel confermi,
guatate i corpi fracidi di noi:
per me’ vedergli, alquanto state fermi.
     Quali ora siete voi, ed io giá foi:
110e quale io sono, tutti torneranno
que’ che son nati e che nasceran poi.
     In questo loco papi meco stanno,
imperatori, re e cardinali;
né piú che gli altri qui potenzia hanno,
     115perché all’estremo tutti quanti equali
ne fa la morte, ai ben felici atroce,
e tarda e dolce agl’infelici mali.
     Oh lasso me! L’indugio quanto nòce!
E quel, che si dé’ fare, averlo fatto,
120oh quanto acquista del tempo veloce!
     Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto;
e questo il fe’ la mia pigrizia sola,
ché non soccorsi, com’io potea, ratto.
     Io fui giá Uguccion dalla Fagiola.—
125Poi come morto ricadde supino,
ratto ch’egli ebbe detto esta parola.
     Io ingavicchiai le mani, e ’l viso chino
tenea: per questo il cor sí m’invilío,
ch’io non curava piú del mio cammino.
     130Ma quella, che guidava il passo mio,
disse:— Che hai, che stai ammirativo
e, come pria, venir non hai disio?
     Non sapei tu che ombra è ’l corpo vivo,
e che trapassa e fugge come un vento,
135e cibo a’ vermi è poi, di vita privo?