Quì fè posa Mercurio al dolce canto,
Poiche il varco vocal di sete ardea,
Onde à temprar l’ardor tolse da canto
Torto vaso ripien d’ambra Lenea,
Questo al labro sospese, e l’orlo intanto
Con bei gorgogli in Nettare piovea;
Fin che sparso d’humor l’Organo roco,
L’humido precipizio estinse il foco.
In ascoltar la Povertà canora
Un pietoso tintinno à i Vecchi suona;
E questi all’hor, senza interpor dimora,
Dentro chiamar la Deità barona.
Sopra certi treppiè, che stavan fuora,
Li fè seder la rancida Padrona,
Havea zoppo un Treppiede il piè compagno,
Ma il pezzo d’un piattel gl’erse il calcagno.
Bauci un Pan frà lor due tolse à partire,
Crudo non già, benche Neron parea,
E diè lor certo Vin, che potean dire,
Un Vinitian, perche de l’acqua havea,
Magnar poco gli Dei, perche venire
Ganimede ogni dì Giove facea,
Che trahea tanti gusti Ambrosiani,
Quanti haver ne potrian quattro Milani.
Chiesero intanto a’ Pitoccanti i Vecchi,
Dove han la casa, ove il lor piè cammini;
E Giove, perche aprian tanti d’orecchi,
Appettò gran carote a quei meschini,