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Fascio Terzo. 263

Ma fù caso ridicolo à gli Dei,
     Mentre fean d’Elemosine richiesta,
     Da una Finestra in lor certi Plebei
     Versaro un vaso d’acqua in sù la testa,
     Piovano pur disse a l’hor Giove, i Rei,
     Un dì fia lor la pioggia mia molesta;
     Ma per quanto in quel dì disse un Lunario
     Giove, e Mercurio stavano in Aquario.

Incontrando per strada un . . .
     Che la Crusca direbbe un Barbassoro,
     Me . . tuæ, disse, commendo,
     Mercurio, e nel latin chiese un ristoro.
     Quei, saper di latin forse credendo,
     . . . non habeo, disse loro,
     Così volendo dir. Non hò un quattrino,
     Disse ch’era empio, e non sapea Latino.

Mossero al fin da la Cittade i passi,
     Tanti digiuni de l’humana aita,
     Quanto satij de’ Vitij, e in rozzi sassi
     L’orme trovar d’una Pietà bandita,
     Spesso il Valor fede traspianta, e fassi
     Civile il Bosco, e la Città romita,
     E ad onta pur de la magion superbe
     Germe d’alta Virtù spuntan frà l’herbe.

S’ergea fuori del Borgo in vicinanza
     Roza magion d’Architettura scabra,
     Che di mura infrascate havea la stanza,
     E vil Necessità n’era la Fabra.