Voi, ch’à pescare un cor, reti asciugate,
Cangiate omai le vostre prede in doni;
Ch’à voi più recherà glorie divine
L’argento d’una man, ch’oro d’un crine.
Quì la crudele Arpia, bench’auree masse
D’Alchimistico crin non caccian fame
Involto entro una carta a i Numi trasse
De gli ori suoi lo scardassato stame,
Mà si legge, ch’irato a l’hor cangiasse
Giove i suoi crin di Canape in legame,
Quasi volesse dirle. Hor che le ricche
Chiome non hai, la fune lor t’impicche.
Chiese Giove elemosina a un Zerbino;
Mà fè in guadagni il solito progresso,
Ch’Amor del foco suo sotto il camino;
Le monete di lui squagliava spesso.
Ogni servo d’Amor brama il quattrino
Perche Cupido, e cupido è lo stesso;
Nè fia stupor, ch’al povero sia crudo,
Chi nega un Cencio a un cieco Dio, ch’è nudo.
Certo brodo ad un Hoste un giorno chiede
La lor Dovinità, ch’era già secca,
Un Piatto unto, mà voto à l’hora diede
L’Hoste a Mercurio, e disseli. Tò lecca,
Rise Mercurio, e replicò. Si vede,
Che l’Hoste in noi d’hostilità non pecca
Vuol, che netti i suoi piatti un Dio digiuno,
Perche nettare, e Nettare è tutt’uno.