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vinato in un disegno di dettaglio in cui tutti i piani del modellato ampio, sicuro sono impeccabilmente riprodotti, i lunghi musi frementi all’arresto improvviso dopo la corsa sfrenata, nei quali le froge si dilatano inverosimilmente, la bocca si contrae, le orecchie s’irrigidiscono, sono altrettante meraviglie fermate sul foglio dall’artista di genio.

E s’indovina il maestro — indagatore profondo, insistente d’ogni nuovo aspetto della natura — che frequenta le pulite stalle ducali e del generalissimo che per i cavalli aveva un culto e s’indugia nelle lunghe corsie a schizzar muscoli equini, atteggiamenti improvvisi e coglie di sorpresa l’animale che nitrisce, si mescola alla folla degli scozzoni e dei palafrenieri al ritorno tumultuoso delle gioconde cavalcate nei boschi e nelle tenute ducali dei cento castelli sforzeschi, di che tanti ricordi piacevoli ci son rimasti.

E non pare esagerata la conclusione che i disegni suoi di cavalli, certi disegni sopratutto, colti sul vero, esclusivamente ispirati al vero, siano fra le cose più belle, più fresche, più sincere che l’artista ci abbia lasciato.


Gli schizzi da ritenersi preparati per il progetto del monumento equestre allo Sforza nei quali la critica si accorda per la paternità vinciana son pochi: per altri non s’è invece raggiunto l’accordo sulla loro destinazione. Se possiamo ritenere con lo Seidltiz che non sia opera del maestro — ma piuttosto derivato da un suo pensiero — uno dei disegni di Windsor in cui il cavaliere, in armatura, il braccio steso con la spada orizzontale all’indietro trattiene il cavallo impennato, la zampa appoggiata a un tronco d’albero, non siamo invece