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Atreo. E del fanciullo a te ragione, o madre,

Chieder men venni. Le sedotte guardie
(Che sotto scure lor pietà scontaro)
Pria di morir, agl’infernali Iddj
Giurár che, non ha guari, Erope ansante,
Pallida in volto, disperse le chiome,
Pregò, pianse, donò. Vinti i custodi
Schiuser le porte alla furente donna.
Or dì: questa è la fede? E tanto abusa
Di mia pazienza? e si rispettan tanto
I voleri d’Atreo?
Ippodamia. Più consigliata
A sua carcere il rese. Oh se sapessi,
Quanto è il dolor di madre, e com’è dolce
Fra le sventure contemplare un figlio!
Atreo. Se altrui lo celo, ella sel perde?
Ippodamia. Nulla
Di ciò non ode; una parola sola
Gemendo sempre a mie ragion risponde:
«Il figlio!»
Atreo. Guardia, Erope a me.1.     Secura
Faranla in breve i miei consigli, spero;
Ove non basti, i miei comandi.
Ippodamia. Inulte
Non vanno in ciel le colpe; e i numi sono
Del male, e del ben memori: punirci
A loro spetta. Ah! se a lor pene aggiungi,
Che pur son tante, i tuoi gastighi, lassa!
Che fia di quella dolorosa donna? –
Vedila come i suoi passi strascina
Pallida, muta; e di sua colpa ha in viso
L’orror.
Atreo. A sue querele altre più tristi
Deh! non v’aggiunger, madre.

Scena quinta

Erope preceduta dalla Guardia che resta

nel fondo, Atreo, Ippodamia

Atreo. (2)
  1. La Guardia parte
  2. ad Erope