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Per inospite selve e per dirupi,
Senza fossa di morte, disperato
Di sua man li troncò.
Atreo. Ben ciò rammento
Io pur; e in core di furor tremendo
Le vampe spegne mia pietà fraterna:
E tu tel vedi. Ha un lustro, ed io non mai
Vendetta volli; eppur potea: svenati
Erope, e il figlio della colpa, a brani
Potea vederli, e contentarmi almeno
Per qualche istante. – Ma son io Tïeste? –
Or tu pon modo a femminil lamento.
Che mal s’addice a te reïna: offusca
Ciò l’onor nostro; e alcun conforto traggi
Dal saper ch’egli vive; io te l’attesto;
Ei vive: e chi sa forse, all’amor primo
D’Erope fida.
Ippodamia. Ah! mal conosci il core
Di quella donna sventurata. Orrendi
Sono suoi mali; e tu n’aggiungi orrendi.
Misera! Tal, tu ben lo sai, non era
Dell’imeneo dinanzi i giorni; in lei
Sol virtù risplendea: terrore or tutta
L’anima le circonda. Or freme e piange,
Or chiama morte, e innorridisce. I tanti
Rimorsi suoi segno ci dan che nata
A’ misfatti non è. – Fato la trasse,
Ond’essere infelice.
Atreo. E come vuoi,
Ch’io le ferree del fato leggi rompa?
Per me, felice ella pur sia. Che deggio
Far a suo pro? – Sposa la volli; e sposa
D’altri si fè. Rinnovellar dovrei
Con donna infame incorrisposto amore? –
Tant’io non soffro.
Ippodamia. E tanto Erope mesta
Da te non vuol. Ultima grazia, e sola,
Atreo, ti chiede: il suo misero figlio.