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D’Argo, troppo costava: or sonci, e mai
Non fuggirò, se pria meco non viene
Erope, o se con lei non vommi a morte. –
Ma tu mi dì: madre mi sei, qual fosti
Un giorno a me? tu m’ami? o sei d’Atreo
Più schiava assai che genitrice?... schietta
Dillo; non simular: chè non è nuovo
Cessar d’amare i sventurati.
Ippodamia. E il chiedi?
Testimonj gl’iddii, che tanto acerbi
Or son con noi, de’ miei sospir, del pianto
Furon essi dal dì che tu volgesti
Infausto il piè dalle paterne case.
S’io ti son madre? Ah! il tuo sospetto estingui,
E in me ravvisa Ippodamìa, la mesta,
La sciagurata madre tua. Te chiamo
Nelle vegliate notti, e di te piango
Con Erope tuttor. Pur e’ m’è forza
Tremar, se a me veggioti appresso; io scelgo
Pianger senza di te, che strazio e morte
Vederti. – Io ti son madre, e le mie cure
Siegui. Fuggi di qui: va dove i passi
Ed i fati ti portano.
Tieste. Tel dissi:
Io di qui non m’andrò. D’Atreo alle folte
Spade, ed ai sgherri di rëal possanza
Petto opporrò magnanimo. M’è sacra
Morte pria vendicata, e m’è söave
Spirar su gli occhi d’Erope, ed in seno
A te, mia madre. – Ma qui assai parlammo.
Benchè sott’altre vesti, io temo forte,
Che alcun mi scopra: or tu celami, e allora
Vedrò, che m’ami, e che sei madre in vero.
Ippodamia. (Numi! che m’inspirate?)
Tieste. I tuoi ritardi
Esser ponmi funesti: un certo asilo
M’addita, e vien con Erope.