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inno secondo. | 243 |
Per proprio fato eterna; e n’è custode
345La veneranda Deità di Vesta.
Vi s’appressa, e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del Sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro,
E i mari allor che ondeggiano al tranquillo
350Spirto del vento, facili a’ nocchieri;
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti; e a qual più s’apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molte tinte comparte, invidiate
355Dalla rosa superba. Anco talora
Di quel candido foco una scintilla
Spira la Dea nell’anime gentili,
Che, recando con sè parte di cielo,
Sotto spoglia mortal scendon fra noi.
360Di quel candido foco ardono i petti,
Pronti al perdono, al beneficio, e pronti
A consolare i miseri col pianto.
Pria ne’ Greci spirolla; e da quel giorno,
Dolce un incanto si sentian nell’alma,
365Lucido in mente ogni pensiero; e tutto
Ch’udian essi e vedean, vago e diverso
Li dilettava: ad imitarlo industri
Prendeano a prova, e divenia più bello.
Quando l’Ore e le Grazie di soavi
370Lumi, passando, coloriano i campi,
E gli augelletti le seguiano, e lieto
Facean tenore al gemere del rio
E de’ boschetti al fremito, il mortale
Emulò que’ colori; e mentre Marte
375Fra l’armi, o l’agitò Nereo fra’ nembi,
Mirò ’l fonte e i boschetti, udi gli augelli,
E si beò della pace de’ campi.1
- ↑ 369-394. Tutto questo vaghissimo tratto si riferisce alla gran questione dell’ideale nelle Arti belle. Il Poeta ne stabilisce la necessità, fondandola sopra la ragione della scelta da farsi nelle cose reali esistenti in natura. A questo principio pure mirava Dante quando cantava di Beatrice, modello ideale di perfezione:
Che sue bellezze son cose vedute.