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Sono le trecce delle care Grazie,
Quali sotto il cimier contien Bellona
Pari alla giuba delle sue poledre
Che pel di lionessa hanno e vigore.
Nè son ricciute come il crin d’Amore
Non come quel di Cintia cacciatrice
Pallide, e tutte rannodate al collo.
Ma donde spesse cascano le chiome
Sembran più fosche, e sono auree le ciocche
Che sparse al vento van mutando anella
E mostran varj ognor biondeggiamenti.
Spiran soave odor, ma non di mirra
Non delle rose di Cirene odore,
Inclite rose! Ma cotal fragranza
mandano pari all’armonia, che diede
D’Orfeo la lira, allor che al sacro capo
Dalle baccanti di Bistonia infissa,
Venne nell’alto Egeo, spinta dai monti,
E un’armonia suonò tutto quel mare,
E l’isole l’udiano e il continente,
Sebben né vate mai né arguta corda
Di Lidia cantatrice a quel fatale
Suono die’ legge e nome . . . .
Quantunque questa poesia non abbia i caratteri della nobile semplicità Omerica, e senta, al mio parere, la raffinatezza de’ poeti latini, veggonsi nondimeno disjecti membra poetae, ed un ardire felice. Ecco dove si dipinge Giove, che scende ai convito apprestato da Venere in Tempe.
Della luce infinita i rai deposti
Tutto-veggenti e il telo onnipotente
Scendeva in terra fra l’ambrosie tazze
Giove, dell’universo animatore.