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264 vi - commento alla «chioma di berenice»


a’ mortali, ch’ei le vedeano sí care al ministro maggiore della natura, che in sí poca ora traversava splendidamente l’oceano. Non so se le scienze abbiano cooperato a far meno malvagia o piú lieta l’umana razza, ch’io né dotto sono, né temerario da giudicarne. Questo vedo: che, essendo destinate a pochi, ove questi volessero rompere a noi popolo il velo dell’illusione da cui traspare un mondo di belle e care immaginazioni, ci farebbero essi piú sovente ricordare la noia e le ansietá della vita, dove niuno va lieto senza il dolore dell’altro. Né mi smuoverò da questa sentenza, se prima non mi abbiano compiaciuto di due discrete domande. Le arti veramente utili sono figlie del caso o delle scienze? E questi chiamati «comodi» ed «utilitá», perfezionati dalle scienze, han questo nome per intrinseca qualitá o per la nostra opinione?

V. Tornando dunque alla poesia, la quale non è per gli scienziati (che tutto veggono, o credono di vedere, discevrato dalle umane fantasie), bensi per la moltitudine, parmi provato ch’ella non possa stare senza religione. Nondimeno quel poeta, che volesse usare di una religione involuta da misteri incomprensibili, che rifugge dall’amore e da tutte le universali passioni dell’uomo, che tutti i piaceri concede alla morte, ma scevri di sensi, nulla, fuorché meditazioni e pentimenti, alla vita, che poco alla patria ed alla gloria, poco al sapere, è prodiga a sottili speculazioni ed avarissima al cuore, che, per l’ignoranza o il cangiamento di una idea, per la lite di una parola, produce scismi ed attira le folgori celesti, quel poeta procaccerebbe infinito sudore a se stesso e scarsa fama al suo secolo. Ché, ove cotal religione fosse poetica, chi potea meglio maneggiarla di quell’ingegno sovrano, il quale dopo, avere dipinta tutta la commedia de’ mortali, dove la religione prende qualitá dalle azioni ed opinioni volgari, non sí tosto arriva allo spirituale, ch’ei s’inviluppa in tenebre ed in sofismi? i quali se mancassero del nerbo dello stile e della ricchezza della lingua, e se non fossero interrotti dalle storie de’ tempi, sconforterebbero per se stessi gli uomini piú studiosi. Nel che fu piú avveduto Torquato Tasso, prendendo a cantare le imprese di una religione allora armata,