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morali trascorrono istantaneamente or all’estremo della illusoria beatitudine di possedere la donna amata, or della reale sciagura di vederla posseduta da un altro: quindi quello stato di rabbia misantropica, che quanto è piú alieno dall’indole dolce dell’anima sua, tanto piú gli converte in odiosa amarezza tutta la soavitá degli affetti a’ quali la sua vita era dianzi assuefatta. Le memorie degli inciampi, delle umiliazioni1 e delle ingiustizie, che aveva dovuto tollerare dagli uomini, si ridestano allora pel suo dolore; e il suo dolore glieli ingrandisce in fantasmi atroci, persecutori, che congiurano a rapirgli ogni speranza sopra la terra. Non vede piú nessun cuore che gli si accosti; non può udire voce che lo consoli; non sa piú a chi parlare che sappia intenderlo. Cosí in lui il foco delle passioni, senza del quale la nostra vita non ha piú moto, cresce come fiamma che gli va consumando le facoltá intellettuali. Ma da quell’avanzo di facoltá, che ancora gli resta, raccoglie qualche consolazione d’affetti, pensando alla donna amata; per lei trova voce da dolersi, e pianto, e compassione di sé, e lucidi intervalli di ragione da scriverle e da maturare il suo proponimento. Nondimeno si vede che cammina verso la fossa, ravvolto fra i vortici di quella fiamma, che lo avrebbe forse fra non molto distrutto, quand’anche ei non si fosse distrutto da sé. L’Ortis, sino da che venne in iscena, sentiva la necessitá di morire. Le

  1. Quando fu umiliato nell’assemblea de’ nobili, scrisse: «Deh, se taluno s’attentasse di rinfacciarmelo! gli pianterei la spada nel petto: la vista del sangue mi farebbe pur bene! La mía mano afferrava cento volte il coltello per versarne dal mio cuore oppresso». L’Ortis, benché sia andato incontro a un insulto per ferocia di vendetta (e anch’esso con gente nobile, a quanto pare, perché in quella lettera trovatisi delle lacune forse per de’ riguardi), scrive come chi s’è vendicato e disprezza [i, 275-6]: «Da tre anni quasi io non lo rivedeva; e m’intesi ardere tutte le membra... Io ruggiva come un leone, e mi pareva che l’avrei sbranato, anche se l’avessi trovato nel santuario... Pianse e gridò; e allora la ira, quella furia mia dominatrice, cominciò ad ammansarsi dall’avvilimento di lui... Questa galante gentaglia gridava la crociata contro di me (sic), come s’io avessi dovuto trangugiarmi una ingiuria da chi mi aveva mangiato la metá del cuore». E nella stessa lettera [i, 278]: «volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle; e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti». Parimenti la pietá e ogni altro affetto scoppia in lui con la stessa violenza. Considerando il Werther e l’Ortis come due uomini nati a vivere con gli altri, si direbbe che il primo ha in sé un’amabile simpatia, che persuada quasi tutti ad accostarsegli, molti a volergli bene, e nessuno a temerlo. L’altro attrae con irresistibile predominio quei pochi che lo amano, e respinge gli altri con freddo sdegno, e, se lo provocano all’ira, li costringe ad odiarlo.