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ultime lettere di jacopo ortis 299


e a Dio sono accetti i voti e i sacrifici delle anime addolorate. I flutti gemeano con flebile fiotto, e i venti, che gl’increspavano, gli spingeano a lambir quasi la riva dove noi stavamo seduti. E tu, alzandoti appoggiata al mio braccio, t’indirizzavi a quel sasso, ove ti parea di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce e la sua mano e i suoi baci. — Or che mi resta? — esclamavi: — la guerra mi allontana i fratelli, e la morte mi ha rapito il padre e l’amante! Abbandonata da tutti! —

O Bellezza, genio benefico della natura! Ove mostri l’amabile tuo sorriso, scherza la gioia e si diffonde la voluttá, per eternare la vita dell’universo: chi non ti conosce e non ti sente, incresca al mondo e a se stesso. Ma, quando la virtú ti rende piú vereconda e piú cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e la invidia della felicitá, ti mostrano ai mortali co’ crini sparsi e privi delle allegre ghirlande, chi è colui che può passarti davanti e non altro offrirti che un’inutile occhiata di compassione?

Ma io t’offriva, o Lauretta, le mie lagrime e questa capanna dove «tu avresti mangiato del mio pane e bevuto nella mia tazza»1. Tutto quello ch’io aveva! E meco forse la tua vita, sebbene non lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore nella solitudine e nella pace va a poco a poco obbliando i suoi affanni, perché la libertá regna soltanto in grembo alla semplice e solitaria natura. E dove tu sei, libertá, le petrose rupi s’ornano d’arbuscelli, e Borea frena i suoi turbini.

Una sera d’autunno la luna appena si mostrava alla terra, rifrangendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che, accompagnandola, l’andavano tratto tratto coprendo, e che, sparse per l’ampiezza del cielo, rapivano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti a’ lontani fuochi de’ pescatori e al canto del gondoliere, che col suo remo rompea il silenzio e la calma dell’oscura laguna. Ma Lauretta, volgendosi, cercò con gli occhi intorno il suo cagnuolino; ed errò lunga pezza chiamandolo: stanca finalmente, tornò dov’io sedeva e, guardandomi, parea che volesse dirmi: — Anch’egli mi ha giá abbandonato; e tu forse?... —

Io? Chi l’avrebbe mai detto che quella dovesse essere l’ultima sera ch’io la vedeva? Ella era vestita di bianco; un nastro cilestro

  1. Regum, lib. II, cap. xii, 4.