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lettera liii 167


LETTERA LIII

10 giugno.

          Dorme sonno celeste!... Oh, abbiate pace,
     voi, ossa ignude, e tu, cenere muto
     del Grande che cantò l’arme e gli amori!

Cosí esclamai nel venerar la tomba del mio sovrumano Ariosto. Oh, di quanto foco non mi bollivan le vene, riandando col pensiero le divine ottave di questo genio creatore! Ho visitato ancora, e con qual tenerezza, la semplice sua casa. Mi parve in questo pacifico ritiro vederlo aggirarsi posatamente colla fronte accigliata, in atto di meditar qualche sublime squarcio del suo Furioso. Egli era virtuoso e dabbene in mezzo ai malvagi, e quindi fu sventurato.

Ombra sacra dell’italico Omero, no, che la tua bella Olimpia, né que’ pianti, né que’ gridi, né quelle vaghe membra saranno giammai dimenticate! Angelica ora in mezzo all’acque, che si raccoglie la vesta e dubbia tien alto il bel piede, ora senza alcun velo e cogli occhi pietosamente fissi nel cielo vendicator dei delitti, qual evidente quadro non ci offre?

          Chi narrerá le angosce, i pianti, i gridi,
     l’alta querela, che nel ciel penètra?
     Maraviglia ho che non s’aprîro i lidi,
     quando fu posta in sulla fredda pietra,
     dove in catena, priva di sussidi,
     morte aspettava abbominosa e tetra.
     Io nol dirò; che sì il dolor mi move,
     che mi sforza a voltar le rime altrove!1.

E che il vederla cosí candida e perfetta, che avria sembrato a Ruggiero una bella statua di bianco alabastro:

     se non vedea la lagrima distinta,
     fra fresche rose e candidi ligustri,
     far rugiadose le crudette pome,
     e all’aura sventolar le aurate chiome?2.

  1. Orl. fur., viii, 66.
  2. Orl. fur., x, 96