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ANGELO S.

al sensibile lettore.

Il povero Lorenzo indarno trova un asilo che lo raccolga. Posa egli appena il piede sovra un palmo di terra, che un destino crudele ne lo discaccia. Cosí la virtú vive perseguitata!

Frattanto ch’ei stava per compiere la collezione di queste lettere infelici, la dura barbarie de’ suoi persecutori d’improvviso lo trasse a remote contrade. Ahi dunque! non gli bastarono le piú dense boscaglie e l’alpestre solitudine d’una montagna, ove da pochi giorni godea di quella pace, che le societá non conoscono e mai non avranno... mai! Ma dove l’umana perfidia non giunge?... Qualor mi ricordo, com’egli, muto e pensoso, porgeva la mano alle catene, lanciandomi degli sguardi!... Oh Dio! ché non fui sí forte per seguirlo?... Piango la perdita d’un amico, ch’io forse piú non vedrò. Partiva egli circondato da feroci satelliti, cogli occhi ora fitti al suolo, or al cielo rivolti; ma tal si partiva, che ancor gli splendea su la fronte e negli occhi la grandezza d’animo, il genio e la filosofia. — Abbiti pur sempre cara — mi dicea — la memoria del nostro Iacopo... — Sospirando mi porse un amplesso, e piú nol vidi. Oh trista notte! quel tuo velo funebre che ricopriva la dolente natura, quelle pallide stelle che tingean d’un raro e fioco raggio i gran ciglioni della rupe, l’ululo basso d’un vento agitatore delle querce frondose, il lontano mormorio d’una cascata di acque, il lungo gemito d’un’eco romita, e quel truce sembiante de’ barbari rapitori, e quelle pesanti catene che percoteano col cupo suono la terra, e quelle parole, e quegli sguardi dell’amico... Oh! Lorenzo, tutto, tutto mi sta dipinto sugli occhi, e tu ben sai s’io piangea... e, lo credi, piangerò sempre.


Dopo venti giorni un incognito alquanto mesto e d’una abbattuta fisonomia mi consegna la presente lettera.