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128 ii - ultime lettere di iacopo ortis


Voltando la testa, mi sono avveduto di un contadino che guardavano bruscamente.

— Che fate voi qui?

— Sto, come vedete, riposando.

— Avete voi possessioni? — percotendo la terra col calcio del suo schioppo.

— Perché?

— Perché?... perché? Sdraiatevi sui vostri prati, se ne avete, e non venite a pestare l’erba degli altri. — E, partendo: — Fate ch’io, tornando, vi trovi! —

Io non mi era mosso, ed egli se n’era ito. A bella prima io non aveva badato alle sue bravate; ma... ripensandoci... «Se ne avete»? E se la fortuna non avesse concesso a’ miei padri un palmo di terreno, tu m’avresti negato anche nella parte piú sterile del tuo prato l’estrema pietá del sepolcro!... Ma, osservando che l’ombra dell’ulivo diventava piú lunga, mi sono ricordato del pranzo.

Poco fa, tornandomi a casa, ho trovato sulla mia porta l’uomo stesso di questa mattina: — Signore, vi stava aspettando; se mai... vi foste sdegnato meco, vi domando perdono.

— Copritevi: io non me ne sono giá offeso. —

Perché mai questo mio cuore, nelle stesse occasioni, ora è pace pace, ora è tutto tempesta? Diceva quel viaggiatore: «Il flusso e riflusso de’ miei umori governa tutta la mia vita». Forse, un minuto prima, il mio sdegno sarebbe stato assai piú grave dell’insulto.

Perché dunque abbandonarci al capriccio del primo che ci offende, permettendo ch’egli ci possa turbare con un’ingiuria non meritata? Vedi come l’amor proprio adulatore tenta, con questa pomposa sentenza, di ascrivermi a merito un’azione, che è derivata forse da... chi lo sa? In altri simili casi non ho usato di eguale moderazione: è vero che, passata un’ora, ho filosofato contro di me; ma la ragione è venuta zoppicando; e il pentimento, per chi aspira alla saviezza, è sempre tardo. Ma... né io v’aspiro: io non sono che un di que’ tanti figliuoli della terra..., non altro, e porto meco tutte le passioni e le miserie della mia specie.