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— Or mai — disse, — ben mio, dispona il cielo
di me come gli giova, e la fortuna:
sue stelle, influssi, punti, caldo e gelo
non temo piú, quando questa sol una
grazia ch’or tengo in l’amoroso velo
non mai tolta mi sia, perché niuna
altra non chero eccetto che vederti
ed a mia vita e morte sempre averti.
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Perché giá non potrebbe piú addolcirme
la morte in altro tempo, che s’io moro
in queste voglie mie stabili e firme.
Morir per te, mio spirto, mio tesoro!
Qual esca dolce può meglio nudrirme
di questo pianto e sí grato martoro?
Io mi consumo, e ciò mi piace e giova,
pur che ’l mio ben da me non si rimova.
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Itene, prochi; omai mi sète a noia:
destina il ciel ch’io sia d’un tanto eroo.
Tal nasca d’ambi noi, ch’unqua non moia
sua fama da l’occaso al sen Eoo;
tal fía quel figlio, qual mantenne Troia
mentre che visse o qual vinse Acheloo;
nasca di noi tal Cesare, tal Marte,
che de’ suoi fatti s’empiano le carte! —
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Milon ai dolci accenti per rispondere
de la sua diva giá movea la bocca,
quando a la porta venne a lor confondere
non so qual voce, e chi repente chiocca.
Milon temendo tornasi nascondere,
Rampallo, che lo vede in fida ròcca,
apre la porta; ed è chi ’l chiama presto,
ché a sorte gli toccava il ballo sesto.