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selva seconda 329


V arcar un uomo in ciel non io credea,
I l qual fuggisse vivere famato,
N udrirsi d’erbe, more, fraghe e giande,
D estarsi a mezzanotte e macerarsi
I l corpo giá omicida di se stesso,
C orcarsi o su le frondi o in terra nuda,
A rrecarsi a gran merto il girne scalzo,
V ender se stesso ad altri, non avere
I l proprio arbitrio in sé, che Dio concesse
T enacemente al spirto di ragione.

A l fin, essendo sotto l’altrui voglia,
T olta mi fu la mia dolce Galanta:

L o mio solaccio, il mio contento e spasso,
A imè! da me fu radicato e svelto.
R imasi d’alma privo, ma nel dolo
V i vendo sempre tanto piansi ed arsi,
A rsi d’amore, piansi di dolore,
M orte chiamando ognor, che al fin privato

I o fui de gli occhi e d’ogni sentimento.
L aura qui ottenne il seggio, e sol de volpi,
L upi, tigri, pantere, draghi e serpi,
V entrosi vermi empitte boschi e selve,
M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.

A ttonita scampavasi la turba
P er le fantasme, sogni e negre larve,
P er l’ombre infauste che da l’empia Erinni
E rano sparse drento al laberinto,
L aberinto d’errori colmo e pieno,
L aberinto che giá di Dio fu stanza.
A ugellazzi notturni d’ogn’intorno
N on cessano volar con alte strida;
D el sole omai non piú v’entran le fiamme,
V olti de spirti neri sempre in gli occhi
M’ erano fisi digrignando e’ denti.