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322 caos del triperuno


Fúlica. Assai piú lo discipolo mi piace che lo maestro, e particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto, Triperuno mio dilettissimo; ed annunzioti che in breve cangiarai vita e costumi in assai megliore stato.

Triperuno. Io non son tale che mai puotessi adeguare l’alto ingegno del mio maestro. Ma tóccavi, padre, la volta vostra.

FÚLICA

Nacque di fiera in luogo alpestro ed ermo,
ed ebbe co’ le man il cor d’incude
(ove dí e notte giá molt’anni sude
far a l’inopia il pover fabro schermo),
qualunque al pio Iesú giá stanco, infermo
a l'onte, ai scherni, a le percosse crude,
sofferse in croce le sue membra nude
al segno trar per darvi un chiodo fermo.
Quinci una mano, quindi affisse l’altra
ed ambo e’ piedi al smisurato trave;
né vinse lui quel mansueto aspetto.
Ma questo avvien, ché in prava mente e scaltra
e che di sangue uman sempre si lave,
non cape amor né alcun pietoso affetto.

Limerno. Non altramente sperava io dover avvenire di questo ipocrita e torto collo, e degno da esser nominato (se lo capo raso vien bene considerato) «cavallero de la gatta». Mal abbia chi giammai ti mise quello bardocucullo al dosso, frate del diavolo!

Triperuno. Deh, caro maestro, non vi partite!

Fúlica. Lascialo andare, figliolo. Colui che su nel cielo regna, solo può fare di Saulo, Paolo; di lupo, agnello; di notte, giorno. Ma tu ne verrai meco e, acciò che la lunghezza del cammino siati meno a noia, seguirò de lo asino la miracolosa dottrina.

Triperuno. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo vostro favoleggiare m’addolcisca il core, avendo voi parlamenti di vita.