Pagina:Folengo - Opere italiane, vol. 1, 1911 - BEIC 1820955.djvu/32

26 orlandino


4
Ma questa corte sempre qui sen stia,
che giura non andarmi mai luntano.
Per me sol un contento si desia,
che ’l cancaro mangiasse il taliano,
il quale, o ricco o povero che sia,
desidra in nostre stanze il tramontano.
Ora torniamo al testo di Turpino;
m’avveggio ben ch’io son fuor di cammino.
5
Levavasi giá ’l sole fuor de l'acque
con un visaggio carco di vin còrso,
quando a Parigi il strepito rinacque
di tante genti per lo gran concorso.
La giostra ch’anti a Berta il re compiacque
si mette in punto; chi ’l staffil, chi ’l morso,
chi concia ’l barbozzale al suo destriero
per non deporre il culo sul sentiero.
6
Di fronde, erbette e floride corone
piena è la terra, e pare ch’ivi pasca
Titiro la sua greggia; ma Carlone,
acciò che gara alcuna non vi nasca,
ne’ patti fa cotal condizione:
«Chi giú d’arzone nel bagordo casca,
non fia capace piú del pregio posto;
ma de la lizza fuor uscisca tosto».
7
Scemano li giostranti con tal gioco,
fin che vi resti l’ultimo vittore.
Quivi non giostra sguattaro né coco,
ma re, duchi, marchesi ed altr’onore:
lo premio è un scudo d’or, che ’n alto loco
pende con un rubin di tal splendore,
ch’ove non può del sol entrar il lume,
esso del sol, ardendo, fa ’l costume.