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selva seconda 291

CENTRO DI QUESTO CAOS, DETTO «LABERINTO»

CLIO

Qual gode in carne perché in carne viva
e, in terra stando, l’animo da terra
non leva al ciel (onde si parte) unquanco,
colui d’umana spezie, in cui si serra
l’alta ragione, ad or ad or si priva,
sí come di candela il lume stanco
vedesi, giunto al verde, venir manco.
Di che, giá spento, non che morto, il sole
de la giustizia, resta cieco e palpa
la circonfusa nebbia e, come talpa
sotterra errando, uscir né sa né vole;
tanto che ’l miser sòle
un nuvol d’ignoranzia farsi tale [Omnium vitiorum perniciosissimum est malus habitus et ignorantia.]
che mai del ciel non sa trovar le scale.
Se mi deggia pensar o in terra dentro
o sotto ’l ciel, fra terra e l’aer puro,
esser in pene stabil altro inferno
d’un core ne’ peccati antico e duro,
non so, sássel pur Dio! Mi par un centro,
l’abito nel mal far, di foco eterno;
quando che né d’estade né di verno
forza veruna o sia losinga d’uomo
(questo sperar dal cielo sol si debbe!)
quell’infelice misero potrebbe
indi ritrarlo piú di bestia indomo.
Però tal vizio nomo
l’orribil ombre del Caós deforme,
cui sempre a morte in grembo un’alma dorme.