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268 caos del triperuno


Limerno. Ah volto di tavolazzo, ubriaco che tu ti sei! presumi tu forse di tanta sufficienzia essere che tu poscia la sublimitade de la toscana lingua diminuire?

Merlino. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei! ardisci tu dunque cotanto lodare lo stile petrarchesco e boccacciano, che la romana eloquenzia, non essendo da te nominata, da te riporti infamia?

Limerno. Tu ne menti molto bene, ché non biasmo io la romana lingua.

Merlino. Tu ne stramenti molto piú, ché, mentre innalzi quella troppo, questa abbassi e deonesti molto. [Saepe ab unius laude alterius vituperatio dependet.]

Limerno. Deh, vedi cotesto poetuzzo macaronesco in che modo non pur giudice ma advocato di Tullio e Virgilio da se medemo si constituisse!

Merlino. Deh, mira cotesto zaratano lombarduzzo come si mette al rischio di saper ragionar toscano, ove egli non men si affá d’un asino a la lira!

Limerno. Che zaratano? che lombarduzzo? Come se un conte di Scandiano, un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo, un Lelio, un Molza ed altri molti valentuomini non fussero in Lombardia nasciuti!

Merlino. Non sei tu giá del numero loro?

Limerno. Desidro esserne: onde ogni mio studio è di, se non eguarmi, almanco appressarmi a loro.

Merlino. Molto luntano tu li vai!

Limerno. Lo bon animo non vi manca. Ma tu come hai bene osservato le divine vestigia di Virgilio in quel tuo perdimento di tempo!

Merlino. Quale?

Limerno. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze de non so chi Baldo cachi e canti.

Merlino. Quanto al cantare non ho io giá da imitare Virgilio, quando che del mio idioma, lo quale sopra tutti li altri appresso di me vien reputato nobile, io non mi tegna aver superiore alcuno; ma quanto al cacare, non voglioti rispondere altrimente, perché, se ne l’opera mia son stato io sin a li galloni in quella tal materia