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242 caos del triperuno


A la cui voce giá lo entrato piede [«Consilio, non impetu opus est». Cur.]
ritrassi al modo di chi un serpe calca.
— Deh! saggia ninfa, dimmi per mercede,
— risposi a lei — dove ’l mio ben cavalca?
Perché fra voi questo altercar procede?
perché tanto di tempo mi diffalca?
Quella sen fugge e tuttavia non cessa,
onde non spero mai piú veder essa.

— Lascila gir — diss’ella, — ché la truce [«Tristes voluptatis exitus». Boët.]
e pestilente donna, tuo malgrado,
de l’improba Fortuna ti conduce
al seggio incerto ed a l’instabil guado.
Ma se tu segui me, ti sarò duce
nel destro calle, ove di grado in grado
montando, e non col volo di fortuna,
vedrai quel ben che ’n sé vertú raguna.

Or viemmi dopo, ché su l’alte cime
di sapienza trovarai l’ascesa.
Fuggi costoro, perché al fin de l’ime
valli d’errore mostran la discesa. —
Allor io per costei lascio le prime
e seco me ne vo; ma gran contesa
ecco nascer fra l’una e l’altra turba,
che ’l mar, la terra e sin al ciel disturba.

E prima di parole tanta rabbia
si sullevò tra quelle donne e queste,
che non bastò menar con scura labbia
la lingua e denti, ma l’ornate teste [Mens nostra quae in dubio pendet, huc illuc facile agitatur.]
vengon a scapigliarsi, e su la sabbia
giá molte veggio, per l’orrende peste
de’ calci e pugna, traboccar avvolte.
Ma presto vien chi via l’ebbe distolte.