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selva seconda 241



Per un sentier, colmo di tòsco e fèl va
battendo sempre il palafren da tergo,
tanto che scórse ne l’oscura selva
e mi si tol di vista; ond’io sol m’ergo
de l'orme ai segni (ché si vaga belva [«Malorum esca». Plat.]
perder non voglio), e tutto mi sommergo,
non, pur d’averla, ne le insane voglie,
ma ne’ intricati rami, sterpi e foglie.

Tanto durai nel corso a quella traccia,
ch’al fin del bosco, fra tre alte colonne,
la via par che ’n duo branchi vi si faccia,
qual oggi e’ greci fingon l'ipsilonne;
di che dubbio pensier l’andar m’impaccia,
fin ch’una turba di polite donne [«Voluptates blandissimae dominae maiores partes animae virtute detorquent». Cic.]
mi fûr in cerco, e losingando parte
di loro a manca man mi tranno ad arte.

Quivi d’accorte e ladre parolette
foggia non è che non mi circonvenga;
ma l’altra parte di luntano stette
pensando in quale guisa mi sovvenga.
Io, che fra tanto sono entro le strette
d’abbracciamenti e garrula losenga,
irmene al manco viaggio mi delibro; [«Genus servitutis est coacta libertas». Arist.]
ma donna mi vietò, c’ha in man un cribro.

Un cribro in mano la dongella tiene,
d’acqua ripieno, e goccia non si versa,
che di la turma luntanata viene,
gridando forte: — Non far, alma persa,
non far; se ’l fai, tu sol n’avrai le pene,
ché non sai quella via quant’è perversa.
Ma qui piuttosto volge a la man destra,
che da l’errante volgo altrui sequestra. —

T. Folengo, Opere italiane. 16