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238 caos del triperuno


Nòve cose giammai non anti viste
veggio fra quelle mura in un vallone, [«Fidelis Deus est qui non patietur vos tentari supra id quod potestis». Paul.]
di urtiche, vepri, spine e lappe miste
densato sí, che mai non vi si pone
piede senza lacciarlo a l’erbe triste,
e farsi, o voglia o no, di lor prigione;
ma sí mi preme l’ira d’una donna,
ch’io scampo e lascio a squarzi la mia gonna.

Perocché, ne l’entrar, quella soperba, [Tentatio.]
pallida in volto, magra e macilente,
con voce altéra minacciante acerba
seguivami gridando: — Mai vincente
uomo non fia, se l’animo non serba
a’ miei flagelli forte e paziente! —
Io allor m’offersi al suo comando, e presto
scorro di qua di lá, né unqua m’arresto.

Dov’ ir mi deggia segno non appare
di bestial non che d’uman vestigio;
di che sovente fammi traboccare
de panni co’ miei passi gran litigio,
fin tanto che, sul lido accosto il mare
giunto, m’assisi stanco a gran servigio
di nostra fragil vita, e poi mi levo,
e del cammin doppio pensier ricevo.

Se al dritto o manco viaggio me ne vada
non so, ché nòve m’eran le contrate.
Ma, tra ambi doi mentre ’l voler abbada,
ecco a le spalle, co’ le labbra infiate
di sdegno, m’è la donna tutta fiada
quanto mai fusse nuda di pietate.
— Tu vòi pur anco — dice — chi t’accolga,
rubaldo, e ne’ capei le man t’involga! —