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selva seconda 229



Non che ’ntendessi allora la cagione
ch’io fussi in quel fanciullo sí conquiso;
ma, vinto da non so qual passione,
piú tosto che ritrarmi dal bel viso
lasciato avrei non pur le belle e bone [«Unguentum suave et optimum est amor summi boni, quo pestes mentis sanantur et cordis oculi illuminantur». Basil.]
cose del mondo, ma anco il paradiso.
E finalmente io, sciocco (temo a dirlo!),
stetti piú volte in voglia di rapirlo;

rapirlo meco in parte ove sol io,
nutrendol prima, l’adorassi dopo,
sperando non mai fôra ch’altro Dio
maggior di lui mi soccorresse a l’uopo;
quando che ’l mundo tant’era in oblio,
che l’indo, il mauro, il scito e l’etiòpo
cingevan il gran spazio, ove chi ’l sole,
chi ’l mar, chi un sasso, chi ’l suo rege cole.

Ma, forse accorta del pensier mio folle
in far tal preda, la pudica donna,
levatolo di paglie, sí sel tolle
in grembo e ’l ricoperse ne la gonna;
ché esser d’uomo veduta giá non volle
mentre li porge il latte. Poi l’assonna, [«Lacta, mater, cibum nostrum; lacta panem de coeli arce venientem et pone in praesepium velut piorum cibaria iumentorum». Aug.]
ed assonnato il bascia, e tornal anco
sul strame, a lato un vecchio grave e bianco.

Ma non sí tosto giú posato l’ave,
ch’un giovenetto a lato, in veste bruna,
qui sotto entrando porta un grosso trave
di ponderosa croce, ed altri d’una
colonna carco; e dopo loro grave
e longa tratta d’angioli s’aduna
intorno del presepio, lagrimosa,
ciascun in man avendo una sol cosa: