Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
capitolo settimo | 131 |
32
perché su le taverne consumando
va la sostanzia nostra e non lavora
e, noi per queste selve abbandonando,
il chiaro sangue nostro disonora.
Ma se mai grande i’ vegno sí che ’l brando
cinger mi poscia, voglio cacciar fora
Carlo del mondo, non che d’Anglia e Franza,
e bever tutto ’l sangue di Maganza.
33
Sí che lascia pur, madre, che ’n la guerra
di pugna e sassi adoperar mi vaglia;
quanti n’abbraccio, gittoli per terra,
non li valendo né arte né scrimaglia.
Ciascun mi chiama «Orlando forte-guerra»
perché non è ch’in guerreggiar m’agguaglia;
sempre davanti gli altri salto e schivo
duo milia sassi, e pur son anco vivo.
34
Poscia chi mi dá pane e chi del vino,
chi carne cotta e chi bona minestra;
talor è chi mi dá qualche soldino,
altri che a far la pugna m’ammaestra,
dicendo che pararmi col mancino
braccio mi deggia, e dar co’ la man destra,
tal ch’ad ognuno vien di me paura:
cosa ch’esser mi penso a gran ventura. —
35
Cotanto ben sa l’Orlandino dire,
che di dolcezza Berta ride e piagne;
lascialo dunque a suo diletto gire,
ch’in farsi un valentuomo non sparagne.
Or qui Turpin si vien a divertire,
narrando di Milon le forze magne,
che Desiderio vinse con grand’arte,
cacciando longobardi d’ogni parte.