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capitolo quinto 103


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Quel vecchiarello, a gentilezza dedito,
arrecavi le sue vivande povere;
egli non ha de’ campi o feudi redito,
se non la barca, il mar, il sole, ’l piovere.
Onde di simil sue ricchezze predito,
quel suo vin muffolente e pan di rovere
appone in sua presenzia, e dice: — Inopia
chi mangia di cotesta, mai non scopia.
73
Quanto mi trovo, tanto ne la vostra
presenzia, o miei patroni, ho qui diffuso.
In me il voler, ma no ’l poter si mostra
di far com’è tra vostri pari l’uso;
ma svaria molto questa voglia nostra:
chi tien aperto il pugno, chi ’l tien chiuso;
tal poco n’ha, che altrui quel poco imparte;
tal molto n’ha, che ruba l’altrui parte.
74
S’io avessi in arca l’oro di Tiberio
e li pomi del drago ch’ancise Ercule,
credeti a me (ciò dico a vituperio
de’ ricchi), men sarian coteste fercule.
Questi avarazzi fanno quel suo imperio
col sparagnare in fin a le cesercule,
le scope ed altre cose frali e frivole,
che per disdegno tutte non descrivole.
75
E s’io potessi, fondarei tal legge,
cui meglio non fondâr li antichi padri,
ché chi è signore e gli uomini corregge,
dricciar faria le forche a pochi ladri;
e chi la robba e vita sua ben regge,
verrebbe al sol de loghi oscuri ed adri;
ch’oggi vertú sta serva del dinaro
come ’l pover dottore a l’usuraro. —