Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/251

72
Ed ecco, di sue prove al suono indutti,
molt’uomini traean un muto e sordo,
che, pien di neri spirti, orrendi e brutti,
sté ’nanzi al Salvatore, il quale, ingordo
di parimente ristorar noi tutti,
presto ch’ai vischio suo quest’altro tordo
vid’esser appaniato, a mano il prese,
giá tutto di villan fatto cortese.
73
Perché de la sua man celeste al tatto
caccia gli spirti ed il parlar gli rende,
ciascun del volgo, a tante prove, matto
vien di stupor; ma ’l fariseo ne frende,
ma rugge in guisa d’orso ch’abbia tratto
da l’ape il muso enfiato, e piú s’incende
di pessimo livor, piú ch’ognor vede
aver tal fama il suo nemico in piede.
74
Non puote Aletto in lor tenersi a freno,
che ad alta voce con bavose canne
fuor non gittasse l’ invido veneno
e digrignasse l’incurvate sanne:
dicon gli ontosi porci che ’l sereno
angelico Dottor, da le cui spanne
l’ottavo cerchio gli altri sette abbraccia,
in Belzebú gli neri spirti caccia.
75
Tal scortesia (che s ’altra fu maggiore
giamai non so né di piú duro morso),
cheto portò d’ogni bontá l’Autore,
fatt’agno ove dovea fors’esser orso.
Stette quel viso nel suo bel colore,
né fu di sangue al cor verun concorso,
accorto sempre, occhiato e circonspetto
d’unir gli essempi a quanto ebbe mai detto.