Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/101

104
Ma, perché stia fra le due man con agio,
il fabro ha tolto cura del capestro;
ed anco, acciò non pátano disagio,
sempr’è lor pronto servitore e destro:
e s’han talor camino, il qual malvagio
o sia per densa valle o monte alpestro,
non tende ad altro e d’altro non gli cale
ch’agevolare il passo a l’animale.
105
Pur star non volle il giá cresciuto Infante,
agli quattr’anni, sempre in braccio a lei :
piacquegli su le sue divine piante
gire a le volte o cinque miglia o sei;
e, come andando a lui cascáro avante,
cosi cadder tornando i falsi dèi,
adempito l’oracol, ch’era scritto
che i simulacri mossi fian d’Egitto.
106
Mercurio non v’è piú che ’n cane abbagli,
non Sol che muggi in bue, non Luna in vacca:
quegli adorati porri, cepe ed agli
tutti Iesu passando rompe e fiacca.
Or fa mistier che ’l mondo si travagli
de le menzogne quante Grecia insacca,
ed un fanciullo tenga per la chioma
mille, se mille son, non ch’una Roma!
107
Ove stan oggidí quei folli riti
osservati da Numa e d’altri saggi?
quei Marti, Giovi, Bacchi, Febi e Diti?
e quegli dai cornuti lor visaggi,
Arpie, Demogorgoni, Ermafroditi,
ninfe di monti e fiumi, d’olmi e faggi,
dove son giti? ahi pazzo mondo, quanto
di saper nulla può donarsi vanto !