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gere il testamento ad alta voce. Io gli cedetti il posto e stavo guardando, mentre X. leggeva, un bel gallo orgoglioso saltato su dal portico sull’orlo del fienile. Udii qualche cosa, mi voltai e mi vidi incontro una giovane contadina con un lattante in braccio, rossa, scarmigliata, ansante. «Cossa fali qua, eli? — mi diss’ella piantandomi in viso due occhi sfolgoranti. — Me sassìneli mi e la me creatura?» Successe un trambusto, la vecchia si alzò in piedi, i suoi figli si slanciarono contro la nuova venuta. X. balzò pure in piedi e impose a tutti di non muoversi. «Chi è questa donna?» diss’egli imperiosamente. Fu la madre che rispose: «Ghe lo dirò mi, sior, chi la xe. Nostra fiola la xe, intendelo. Ma a ela, intendelo, no ghe va gnente, no ghe va. So pare el ghi n’a dà anca massa, el ghi n’a dà. A no so...» «Anca vu, mare! — Interruppe la giovane amaramente. — Pazienza me fradei che i xe sempre stà cani con mi; ma vu? Cossa sonti mi? no son del vostro sangue mi, ca me gabiè da tradir anca vu? Cossa podìo dir, vu de mi? Cossa podio dir de me mario?» «Basta, basta, basta! — gridò X.