papale. Costui, il Del Poggetto, aveva bensì bruciato in piazza il De Monarchia di Dante, e avrebbe voluto far lo stesso delle ossa di lui difese in pia custodia dai poveri figliuoli di Francesco d’Assisi: ma altra cosa era quel codice degli eterni principii del giure imperiale e pontificio, ed altra i fatti; ai quali cotesta politica di cherici senza scrupoli, si adattava con non altro criterio che del tornaconto quotidiano. Allora Firenze, che non poteva vedere senz’apprensione tutto quel tramenarsi di Cesare e Pietro in sulle soglie di casa sua, e ingrossarlesi addosso da ogni parte questo Stato pontificio di formazione novissima; e che era uscita allor allora dai pericoli estremi ne’ quali un Ghibellino di grand’animo, Castruccio, agitando le insegne imperiali, l’aveva condotta; non stette a bada più oltre: e data la mano, di verso Roma, al suo solito re Roberto, e di là dall’Appennino ai Visconti, agli Scaligeri, agli Este, ai Gonzaga, a Guelfi e a Ghibellini indistintamente, fermò di botto con questa strana alleanza quella non meno strana tregenda imperiale e legatizia. Le genti del Legato furono rotte a Ferrara: re Giovanni, vista la mala parata, vendeva al miglior offerente le città bonamente donatesegli; e fatto il solito sacchetto cesareo di fiorini italiani, se ne tornava in Boemia, lasciando nelle peste, alle prese con Ghibellini e con Guelfi, l’amico Legato.