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I



Nel caffè bianco, fresco come un’oasi nel deserto arroventato della città, Farro Marchi vide per la prima volta Sona Vinki, scrittrice polacca venuta in Italia per conoscere l’arte avanguardista.

Aveva la magrezza spaventosa di una ballerina russa, l’elasticità fredda del maschio, tutta la modernità delle femmine nuove. Discuteva violentemente, con presunzione brutale, quasi metallica — l’abito sportivo ed il berretto di feltro non ricordavano della donna che qualche forma esteriore.

L’ambiente intellettuale milanese veniva dominato dalla sua irruenza polemica — neppure una sfumatura tradiva in lei la sincerità della conversazione.

Farro Marchi parlò elegantemente, difendendo la superiorità creativa degli artisti italiani — difesa che provocò una rapida serie di contestazioni e di contrasti — comprese, dall’analisi incompleta delle risposte, l’inquietudine e la febbre morbosa della sua intelligenza.

Uscirono a mezzanotte: la polacca rifiutò che le venisse pagata la consumazione, salutò tutti con una nervosa stretta di mano, allontanandosi nella strada notturna con passo deciso.