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210 | giudizio di egidio reale |
illustre del padre, del padre che non vuole che la luce del suo pensiero si spenga, che non sa e non può rinunciare — nè per desiderio di onori nè per brama di quiete — alla dignità, alla libertà dello spirito, alla fierezza, virtù senza delle quali — per i sapienti come per gli umili — la vita non è degna di essere vissuta. Giornali, riviste, case editrici, teatri gli sbarrano le porte. Non v’è possibilità di resistenza. Non v’è che una via che gli resti aperta, quella che tanti, in Italia, sulle orme del primo e più grande degli esuli, Dante, hanno in ogni tempo preso, con lo schianto nell’anima, la via dell’esilio. La patria ormai non potrà egli servire, onorare, amare che nell’esilio. E servirla, amarla, onorarla nell’esilio, sarà la sua vendetta contro l’ingiustizia.
Come pungente, nell’istante in cui abbandona la Patria, egli deve sentire l’amarezza delle parole che un giorno, molti anni innanzi la mamma sua, pensando al padre, e forse presaga dell’avenire del figliolo aveva scritto1: «Nessuno che non sia Italiano può capire l’amore disperato, amaro, contradditorio, che ci unisce a questa terra, che ci è cosí dolce nutrice nell’infanzia, cosí splendida culla nell’adolescenza, cosí ostile matrigna negli anni virili, lasciandoci lungo tutta la vita il rammarico vago di un paradiso perduto, che non riusciamo nella nostra esistena a ritrovare mai più!»
E questo amore disperato che egli porterà con sè. per sempre, quest’amore — gioia e tormento — che dà un cosí vivo senso di tristezza alle sue liriche ed alle sue prose, dal saggio sulla « Tragica grandezza d’Italia »2, al suo « Addio a Roma », all’ultima invocazione alla Patria, la lirica squisita di sentimento e di passione, che egli dedica all’Italia.
Ed egli parte. Parigi, la Francia lo accolgono. Sono, dal 1927 al 1932, anni di assiduo lavoro, nello sforzo di cogliere della lingua che non è quella materna, tutte le bellezze, le sfumature, le armonie. Ed è, infine, dopo lunga preparazione e meditazione, il