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risce, quando giudica, a questo sconosciuto e prezioso patrimonio del tempo suo, che gli dà l’orgoglio di essere un iniziato.

Il Rinascimento è nell’arte il modello di un’epoca di concordia: allora credevano tutti che per creare bisognasse imitare il vero, nessuno lo imitava, e poi si ammiravano per quello che non facevano, come se lo avessero fatto — intrico di principi falsi e di interpretazioni chiaroveggenti, che a noi sembra quasi impossibile.

Fin da principio si vede trapelare in quei pochi scrittori, che si occupavano, di quando in quando, di idee, questa feconda e stupefacente illusione teorica. La classificherà poi Vasari, accoppiandola alla grande infatuazione del classicismo. Trattando di quella «terza età dell’arte», che produsse Leonardo, Michelangelo e Raffaello, Vasari scriverà infatti: «nella quale mi par poter dire sicuramente che l’arte abbia fatto quello che ad una imitatrice della natura è lecito poter fare e che ella sia salita tanto in alto, che più presto si abbia a temere del calare a basso che sperare oggimai più augumento»1.

Lo stesso Lomazzo, uno dei primi critici di Leonardo, fremente ancora delle risonanze che Leonardo spande, già soggetto in parte